lunedì 28 febbraio 2011

SABRINA

L’acqua scorre calda sul corpo nudo di Sabrina, la stanchezza le si scioglie scendendo lungo i fianchi in trecce trasparenti, giù, oltre l’inimagginabile mondo dei principi che regolano le dinamiche dei fluidi.
Il suo unico relax, dopo una giornata trascorsa a contattare clienti, entrando nelle loro vite attraverso un microfono e un auricolare.
Le gocce trovano, senza difficoltà, i tragitti sagittali che segnano i suoi zigomi e affiancano moti impercettibili sottocutanei provocati da pensieri reiterati, ossessivi: per quanto ancora lei e Marco riusciranno a pagarsi il mutuo per quei 45 metri quadrati a Barriera di Milano?
Se invece di indebitarsi, obbligando suo padre a fare da garante, avessero provato a mettersi in lista per la casa popolare?
Tanto le danno a loro, agli extracomunitari, era inutile tentare.
A volte pensava che Marco avesse avuto ragione a prendere la tessera della Lega, ma lei, no, cresciuta nei salotti domestici di una madre insegnante di lettere e un padre bibliotecario., non avrebbe dato il suo consenso a dei populisti barbari.
Mentre aspettava Marco in accappatoio, leggeva le notizie che scivolavano sotto la bella presentatrice del tg.
Distratta dall’ abbigliamento firmato e dal make-up della giornalista, si scopriva improvvisamente trasandata, portatrice sana dei primi segni della malattia che colpiva quasi tutta la sua generazione: la rassegnazione.
Le immagini delle rivoluzioni del Maghreb, le ricordavano un trailer hollywoodiano, lontane, disperate, ma non si sentiva coinvolta.
Doveva far fronte alle rate del mutuo, alle spese domestiche, al calo del desiderio di Marco, al rischio paventato di chiusura del call-center alla fine del mese.
E poi c’era da affrontare l’alcolismo di suo fratello, che non ne voleva sapere della società e dei suoi schemi repressivi.
Una vita così era forse meno disperata dei profughi africani?
Le immagini delle proteste degli albergatori di Lampedusa, le ricordavano un’estate di dieci anni prima, un momento felice con Marco, prima dela loro convivenza, molto prima della condivisione delle loro frustrazioni.
Gli sbarcati, in un angolo dello schermo, avevano occhi scuri, mani agitate, sale e polvere sui vestiti: cosa le chiedevano? Che cosa ci poteva fare?
Marco era ritornato, un bacio freddo, i suoi occhi scuri, i suoi vestiti coperti di polveri sottili, ancora impregnati di odore di kebab della pausa pranzo.
“Come è andata oggi?”, nessuna risposta, la porta del frigo si apre, una luce giallastra trafigge la cucina, il regime di Gheddafi è appena crollato.
Il frigo si richiude, tutta una giovane esistenza si consuma insieme allo sfrigolare di una porzione di spaghetti surgelati saltati in una padella antiaderente.
Più tardi, privi di parole e di commenti, Sabrina e Marco si addormentano, sfiancati dalla loro esistenza, abbracciati sul divano: sono sbarcati improvvisamente in un onirico futuro, rifiutati dai suoi abitanti, senza permesso di soggiorno, in un sonno nervoso che li porterà alla corsa folle del prossimo mattino, in direzioni opposte alla loro relazione umana ormai fondata sulla comune disperazione.

lunedì 14 febbraio 2011

S.Valentino

Poteva trattarsi semplicemente di noia, di una sconfinata prateria o di qualcosa di meglio.
Se esistevi non era per incontrarti, se scivolavi lungo le scoscese dell'indifferenza della città, non era per farti notare, per asservire il tuo narcisismo, ma per ingannare la tua solitudine interiore che non riuscivi più a celare dietro la pelle e le ossa della tua insistente magrezza nervosa.
Era S.Valentino, ma poteva trattarsi del giorno della fine e noi potevamo essere due vittime di Hiroshima, arse in un abbraccio radioattivo.
Era veramente l'insensata celebrazione dell'amore e, i milioni di cin-cin, che turbavano l'aria strisciata di polveri sottili e soffocanti, cerchiavano l'atmosfera di onde sonore assurde.
Samantha mi baciava e io m'impadronivo della sua anima attraverso il contatto falso delle nostre labbra.
Io avevo un eroe nel petto e lei se n'era accorta, io non sapevo combattere con lei ad armi pari, perché ero stato sconfitto e ignorato dal destino che guida gli amanti nel loro sogno di ossido di ferro, rosso, violento, affamato di abbandono, molto prima di una fisica separazione.
Era S.Valentino, festa di dessert al rum, di abbracci di scheletri in cerca di carne, di idiozie scambiate sottovoce  , non inventate, ma rubate alle squallide battute televisive ascoltate e incastrate nella memoria a lunga scadenza, senza possibilità alcuna di rigettarle.
C'era bisogno di un anello per suggellare la nostra infermità sentimentale?
Dovevamo per forza accoppiarci in un tenero affondare di stracci di seta?
Era normale imitare l'imitabile?
Chi ci spingeva a recitare la parte di due iene con le fauci sporche di sangue?
Era S.Valentino, tra le nostre mani, sulla tua schiena definita da ombre impercettibili, provenienti dai riflessi luminosi della città in preda alle sue droghe e alle sue sociopatie.
Era il 15 febbraio, la mattina e il suo cielo erano cobalto, i miei nervi una catena interminabile di termiti vibranti sotto i muscoli, ore consacrate all'addio che lasciai accanto alla tua bella figura distesa e ubriaca di sonno: un grosso coltello piantato nel materasso.